giovedì 13 dicembre 2012

L’Euro non ha finito di far danni, è solo in pausa

Per Roger Bootle la crisi dell'euro non è affatto finita, e tra poco esploderà di nuovo. Ma è meglio che l'euro non sopravviva, perché in realtà è parte del problema, non la soluzione.
Raramente un tale malumore è stato così ampiamente condiviso. Dopo la Dichiarazione d’autunno della scorsa settimana, è come se una nuvola nera fosse calata sul paese. Per molti, l’unico raggio di luce sembra essere il fatto che la crisi dell’euro pare finita. Di conseguenza, da qui in avanti c’è la speranza di una miglior crescita per l’Europa.
Questo punto di vista è fuorviante – sotto due aspetti.  In primo luogo, questa  particolare specie di animale non è morto, ma semplicemente sta dormendo. Il riemergere di un’ instabilità politica in Italia mette in evidenza uno dei principali punti deboli della zona euro, mentre l’economia dell’intera zona è un disastro, un po’ ovunque. Non so se sarà l’Italia, la Spagna, il Portogallo o la Grecia, ma sono sicuro che uno di questi paesi riaccenderà tra breve i timori sulla sopravvivenza dell’euro.
In secondo luogo, ma più importante, l’idea che la sopravvivenza dell’eurozona sia un motivo di ottimismo è, credo, profondamente sbagliata. L’euro è parte del problema, non la soluzione.

EFFETTI DELL’EURO – Certo, è ben lungi dall’essere l’unica fonte dei nostri mali. Ma dà un contributo significativo. L’Eurozona rappresenta circa il 19% del PIL mondiale ed è la destinataria di circa il 50% delle esportazioni britanniche. Così, quando è nei guai, il mondo intero ne risente – e ne risente pesantemente. Ed è nei guai. Dall’inizio del 2008, mentre il PIL dell’America è cresciuto di circa il 3% e la Cina è cresciuta del 4,6%, la zona euro è calata del 2.5%, ed è ancora in discesa.
L’euro ha contribuito a questo scarso rendimento in tre modi diversi.  In primo luogo, ha abbattuto la competitività dei membri più deboli.  Nel periodo pre-euro, paesi come l’Italia consentivano periodicamente alle loro valute di fluttuare e questo compensava la tendenza a crescere dei loro costi relativi.
Naturalmente, non è una cura miracolosa per tutti i mali. Tuttavia, sotto la lira, l’Italia era prontamente in grado di competere sui mercati mondiali. Per i 30 anni precedenti l’euro, ha avuto una bilancia commerciale più o meno equilibrata. Ora il suo deficit di partite correnti è finito al 3% del PIL, nonostante che le importazioni siano estremamente represse dalla debolezza dell’economia.
È vero, la Germania e i Paesi Bassi hanno migliorato la loro competitività. Ma la performance del loro PIL non è stata così straordinaria, perché la crescita dei consumi è stata debole. Dalla fondazione dell’euro nel 1999, il loro Pil è cresciuto meno dell’1% all’anno. In effetti, questi paesi
hanno tratto beneficio dalla domanda aggregata creata altrove, che si è riflessa negli enormi surplus delle loro partite correnti – quasi il 6% del PIL per la Germania e quasi il 10% per i Paesi Bassi.
Per contro, prima dell’introduzione dell’euro, le loro valute tendevano ad apprezzarsi, cosa che manteneva il surplus delle partite correnti sotto controllo e l’inflazione bassa,  permettendo così aumenti dei redditi reali, che poi incoraggiavano l’aumento dei consumi.

In tutto questo c’è anche una dimensione fiscale. La situazione del bilancio pubblico della Germania è abbastanza buona rispetto alla maggior parte dell’Europa. Lo scorso anno il suo deficit di bilancio è stato solo dell’1% del PIL. Ha avuto abbastanza spazio per stimolare la domanda tagliando le tasse e aumentando la spesa. Senza l’euro, con il marco tedesco rivalutato e il surplus delle esportazioni corrispondentemente in calo, il governo tedesco non avrebbe potuto farlo.
E questo ci porta alla terza modalità in cui l’euro ha contribuito all’attuale debolezza della nostra economia. A causa della moneta comune, tutti i membri hanno interesse ai livelli di debito pubblico degli altri paesi. Il risultato è una pressione enorme sui paesi più deboli perché  riducano i loro disavanzi di bilancio. In Germania vi è anche la necessità di mostrare la via ai paesi percepiti come dissoluti, cosa che fa perseguendo anche al suo interno una politica severa.  Dimenticate l’unione politica, fiscale e bancaria; sono tutti sogni. Quel che l’euro è diventato in realtà, è un’unione nell’austerità.
Non che stia funzionando, badate bene. Per i cinque paesi periferici, il debito in rapporto al PIL è in aumento. Nel frattempo, tutto questo sta indebolendo il sistema bancario, che quindi stringe ulteriormente il credito, aumentando così la spirale verso il basso.
L’Europa soffre di una carenza cronica di domanda aggregata. A meno che non venga fatto qualcosa, vi è il rischio reale di una depressione prolungata. I paesi che sono nella posizione di poter stimolare le loro economie e sfruttare meno la domanda creata altrove hanno la responsabilità di agire. Purtroppo, l’attuale assetto internazionale non esercita sufficienti pressioni. L’euro è una parte centrale di questo assetto.
Naturalmente, anche una parziale rottura dell’euro causerebbe un enorme dissesto. Ma in seguito, i meccanismi usuali di ripresa dell’economia potrebbero rimetterla in moto. Senza una rottura, non possono funzionare.
I sostenitori dell’euro potrebbero dirci per favore com’è che il continente potrà ripartire? E se non hanno la risposta, potrebbero per favore dirci come i sistemi politici e sociali dell’Europa potranno rimanere coesi con la disoccupazione che monta? Dopo di che, forse dovrebbero chiedere piuttosto a se stessi perché ancora sostengono l’euro. È ormai solo quella situazione in cui “si rimane in collo alla tata, per paura di fare brutti incontri”1?

Roger Bootle è economista e amministratore delegato di Capital Economics, nonché vincitore del  Wolfson economics prize nel 2012 per la migliore strategia di uscita della crisi dell’Euro.  Wolfson economics prize nel 2012 per la migliore strategia di uscita dalla crisi dell’euro




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