mercoledì 6 febbraio 2013

EUROPEISTI E MERCANTILISTI di Alessandro Mura.


Vi riportiamo oggi un bellissimo articolo esemplificativo della condizione Europea raffrontata anche con il sistema Americano. L'articolo è un pò lungo ma davvero molto interessante.    Fonte: http://www.ilmoralista.it

<<Non sfuggirebbe neanche al più distratto dei commentatori che l’attuale crisi economica, benché abbia avuto origine negli Stati Uniti, è attualmente impantanata nei corridoi di Bruxelles e Francoforte. Per quanto i singoli governi dell’UE tentino di proporre programmi di riforma nazionali, è ormai chiaro che la partita si gioca tutta in Europa.La costruzione europea, così com’è stata progettata, non è stata in grado di assorbire lo shock proveniente dalla crisi americana, sostanzialmente perché non funziona. Gli Stati Uniti s’incamminano timidamente verso la crescita, lasciandosi alle spalle le paludi della recessione ed è proprio dal confronto fra il mercato unico americano e quello europeo che si dovrebbe trarre insegnamento. Per raggiungere un livello d’integrazione come quello americano, già da tempo l’Europa avrebbe dovuto rimuovere tutte quelle barriere che ostacolano il potenziale di crescita del mercato unico europeo e dotarsi di strumenti e regole per arginare gli effetti distorsivi dei comportamenti apparentemente“razionali” degli operatori economici, superando gli egoismi nazionali dei singoli stati membri. E’ vero che per ragioni storiche, culturali e linguistiche, gli USA si presentano come una nazione dove i cittadini si sentono americani, ancor prima di californiani, texani, del Maine o dell’Idaho, mentre in Europa ci si dedica alle“guerre commerciali” fra fratelli di confine. Noi italiani siamo addirittura fermi ai campanilismi dell’Età dei Comuni.Gli USA si sono dotati di un Governo Federale e un Presidente, democraticamente eletti, che governano una nazione in rappresentanza della sovranità popolare, nel rispetto del principio del federalismo. L’Europa è invece governata da tecnocrati non eletti, il potere esecutivo e legislativo/regolamentare è sostanzialmente in capo alla Commissione Europea e al Consiglio Europeo e quest’ultimo rispecchia nelle sue decisioni gli equilibri di forza dei singoli Stati che lo rappresentano, mentre il Parlamento Europeo, unica istituzione eletta dai cittadini europei, non ha poteri sostanziali nel determinare alcunché sulle politiche europee. Una forma di governo di questo genere è fortemente esposta agli egoismi nazionali degli stati economicamente più forti. Le politiche monetarie sono decise dalla Banca Centrale Europea in assoluta autonomia rispetto ai governi, con pesanti ingerenze degli Stati più forti (non è un caso che la BCE ha sede a Francoforte). Nel leggere le cronache di questi tempi, anche un babbeo comprenderà che l’Europa ha una gestione “germano-centrica” (e di chissà quale altra mano invisibile). Gli USA hanno una politica di difesa comune, una politica energetica comune, una politica fiscale comune, ecc. L’Europa? Con ciò non s’intende affermare la presunta superiorità del “modello americano”, anzi sarebbe auspicabile che gli USA volgessero lo sguardo aldilà dell’atlantico e studiassero meglio l’economia
sociale di mercato su cui è fondato il modello sociale europeo (o almeno quello che ne rimane…). I cittadini europei hanno a malincuore constatato che la classe dirigente tecnocratica che ha sviluppato il progetto d’integrazione non è stata in grado di dare delle risposte a questa tremenda crisi che devasta l’Antico Continente. Questa classe dirigente dimostra colpevolmente di conoscere a fondo i punti di forza e di debolezza del mercato unico e dell’Eurozona, fin dalla sua progettazione e costituzione, tanto da far sospettare numerosi commentatori che questa integrazione sia stata disegnata ad hoc per consolidare gruppi di potere economico sovranazionali e gli Stati centroeuropei. Lo stesso Prof. Monti, uno dei protagonisti della costruzione di questa Unione zoppa, in un rapporto che presentò al Presidente della Commissione Europea Josè Manuel Barroso,dietro suo incarico(clicca per leggere),ha elaboratonumerose iniziative per la costruzione di un mercato unico più forte, volte ad eliminare le strozzature che rimangono, a colmare le lacune e a inserire gli anelli mancanti che frenano l’innovazione e ostacolano il potenziale di crescita del mercato unico (maggio 2010).
In questo documento emergono tutti i limiti insiti nella sua visione dell’Unione Europea e dell’Eurozona, al netto di numerose opportune raccomandazioni che vale la pena approfondire. Uno degli aspetti trattati nel documento che ritengo di fondamentale importanza è la mobilità dei cittadini europei intra-UE. Nel capitolo 2.7, in particolare si pone particolare risalto alla mobilità dei lavoratori, che è condizione essenziale per “assorbire gli shock asimmetrici e adattarsi ai processi di ristrutturazione locali nella zona euro, dove le Autorità nazionali non possono più utilizzare la politica del cambio e monetaria”.  Lo studio non ignora il fatto che una maggior mobilità transazionale dei lavoratori all’interno dell’eurozona, che adotta la stessa moneta, avrebbe consentito in parte di ovviare agli squilibri fra le diverse regioni europee, attraverso una reale “mobilità occupazionale” fra aree geografiche e settori dell’economia in crisi verso quelle in espansione. Negli USA, infatti, la mobilità dei lavoratori è tre volte tanto quella europea, un po’ perché facilitati da ragioni linguistiche, culturali e di costume e un po’ perché sono soggetti in tutto il territorio nazionale a discipline giuslavoristiche piuttosto omogenee, nonché ad una certa uniformità nel diritto civile, commerciale, di famiglia, ecc. In Europa, sottolinea Monti, persistono ancora numerosi ostacoli di vario genere che limitano la mobilità dei cittadini (mancato riconoscimento da parte di alcuni Stati dei titoli di studio o delle qualifiche professionali rilasciati da altri paesi membri; differenti norme sui diritti dei lavoratori;criticità legate alla portabilità dei diritti previdenziali; diversi regimi fiscali sul lavoro; non uniformità nelle prestazioni transfrontaliere dei servizi sanitari; documenti di stato civile rilasciati dai paesi membri non sempre riconosciuti in tutti gli Stati UE; regimi patrimoniali differenti; altre criticità permangono nel settore dei testamenti e delle successioni transfrontaliere, ecc.). Nel documento sono suggerite pertinenti raccomandazioni che possono sicuramente essere etichettate “europeiste”, sebbene sia trascurato il problema delle barriere linguistiche. Inoltre non si è rilevato quello che molti economisti denunciano da diverso tempo a questa parte, ovvero la pratica assai diffusa in Europa di competere e cercare di farsi le scarpe fra cugini e fratelli di confine, competendo sul costo del lavoro, in sostanza attraverso la moderazione salariale, scaricando il costo sui lavoratori. Questa pratica mercantilista di dumping salariale ha decretato il grande successo della Germania. Dietro l’introduzione di nuove forme di flessibilità “in uscita” (che aumentano il precariato, la possibilità di essere licenziati e l’incertezza dei lavoratori), si nasconde l’intento di costringere il lavoratore ad accettare qualsiasi salario pur di mantenere il posto. La crisi economica e la conseguente disoccupazione hanno ulteriormente ridotto il potere contrattuale dei lavoratori.Forme di flessibilità analoghe sono state introdotte dal governo Monti nella recente riforma del mercato del lavoro in Italia.Molti commentatori sostengono che l’intento neanche tanto velato è quello di “cinesizzare” l’Europa, utilizzando lavoratori altamente specializzati a basso costo, il tutto a vantaggio delle grandi industrie e società globalizzate, scardinando il modello sociale di mercato sancito nel Trattato di Maastricht.E’ questa l’Europa che vogliamo? Suggerire un salario minimo garantito quale diritto inalienabile del cittadino europeo sarebbe il “minimo sindacale”.
Nel rapporto-Monti sono esaminati numerosi temi senz’altro caratterizzati in senso europeista, ad esempio sullo sviluppo della green economy(non trascurabili le prospettive di lavoro e occupazione in questo  settore), sulla crescita verde e il mercato unico dell’energia (cap. 2.4). Nel capitolo 2.3 si richiama un recente studio del CopenhagenEconomics che stima che un maggior sviluppo della tecnologia digitale in Europa potrebbe far aumentare il suo PIL del 4% (trasmissione ad alta velocità, diffusione delle competenze informatiche, mercato elettronico paneuropeo,ecc.).Non mancano raccomandazioni su diversi temi di carattere generale (integrazione dei servizi di telecomunicazione,del mercato delle merci e dei capitali, una politica industriale comune, il rafforzamento delle politiche di coesione, ecc.), ma è sicuramente su quello del coordinamento delle politiche fiscali che emergono tutti i limiti della visione europeista del Professore.Lo studio opportunamente suggerisce,a fronte di un sistema eccessivamente frammentato, un maggior coordinamento dei regimi fiscali, al fine di ridurre i costi di conformità e gli oneri amministrativi per le imprese e i cittadini che operano a livello transfrontaliero.Promuove un quadro fiscale più chiaro e trasparente per ridurre la possibilità di elusione ed evasione fiscale. Forme di coordinamento sono suggerite per evitare il dumping fiscale, praticato da alcuni paesi per incentivare l’afflusso di capitali esteri (politiche nazionali di concorrenza fiscale possono determinare squilibri all’interno del mercato unico, specialmente nell’eurozona – pensiamo ad esempio al caso irlandese). Ma quando viene trattato il nocciolo del problema,le analisi del Professore risultano poco convincenti e infondate rispetto alla realtà dei fatti. La politica fiscale comune può essere vantaggiosa per ridurre gli squilibri economici fra le regioni dell’eurozona e facilitare la gestione della politica monetaria da parte della BCE. Non ultimo è suggerita l’adozione di E-bond (cap. 2.8, pag. 66).Si prende atto che, a seguito di un ennesimo categorico “nein” della Sig.ra Merkel,l’argomento eurobond è diventato tabù, anche per il Presidente francese Hollande, che li ha previsti nel suo velleitario programma elettorale, con l’appoggio di Bersani, D’ Alema e il tedesco SPDino Schultz.Come prevedibile, molti passi del documento del Professore sono ahimè contornati qua e la da considerazioni fuorvianti sul concetto di “azzardo morale” (moral hazard), che imporrebbe una “disciplina di bilancio più rigorosa ai governi meno oculati…” (l’Italia?).
Come noto, per promuovere l’integrazione fiscale è stato approvato il Patto di Bilancio Europeo, cosiddetto “fiscal compact”, che prevede un pesante contenimento della spesa pubblica. Monti è uno dei più agguerriti sostenitori della politica del rigore e il patto di bilancio è stato fortemente voluto dagli stati del centro Europa e in particolare dalla Germania. La firma di questo trattato presuppone che la causa di questa crisi economica siano gli elevati debiti pubblici. Nell’esaminare i dati, si osserva che la Spagna all’inizio della crisi registrava un rapporto debito/PIL attorno al 60%, pertanto virtuosamente all’interno dei parametri di Maastricht. Alla vigilia della crisi l’Irlanda aveva un surplus di bilancio e un debito basso. Dalle parole di Romano Prodi:  “…il problema della Grecia si è ingigantito quando poteva essere risolto subito, bastavano all’inizio 40 miliardi di euro, ma c’erano le elezioni regionali in Germania e si persero mesi. Poi sono diventati 300 miliardi di euro…”
Hanno ridotto alla fame i fratelli ellenici perché era scomodo solidarizzare con la Grecia nel bel mezzo di una campagna elettorale. E’ questo europeismo? Per quanto riguarda lo Stato italiano,i dati incontrovertibilmente evidenziano che: a partire dal 2011 è stato contribuente netto al bilancio europeo, ossia ha versato alle casse comunitarie più di quanto abbia ricevuto sotto forma di aiuti (compresa la quota di competenza al Fondo salva stati);si è registrato un consistente avanzo primario di bilancio(differenza positiva tra le entrate e le uscite dello Stato al netto della spesa per gli interessi sul debito pubblico) dal 1992 al 2008. Con una breve parentesi nel biennio 2009-2010, in cui si è registrato un modesto disavanzo, il saldo è ritornato positivo nel 2011 e nel 2012 è stimato il doppio di quello tedesco. Quindi l’Italia nella gestione dei conti pubblici è stata mediamente più virtuosa anche rispetto ad altri paesi UE, come Germania e Francia (che sono stati fra i primi a sforare i parametri di Maastricht sui vincoli di bilancio e oggi intendono fare la morale agli Stati spendaccioni del sud). Questi indicatori positivi, fanno dubitare fortemente circa la necessità dell’ingresso del governo Monti nell’ottobre del 2011 per scongiurare “di non poter pagare gli stipendi pubblici e le pensioni”.
Semmai l’alto indebitamento è dovuto agli interessi sul debito, che sono schizzati verso l’alto dal 1981, quando, per decisione di Andreatta e Ciampi, vi fu il “divorzio fra Tesoro e Banca d’Italia”. Il principio di “indipendenza della banca centrale”, secondo cui le banche centrali non possono monetizzare il debito, è stato applicato gradualmente dai vari stati membri nel corso dell’integrazione verso l’unione monetaria dello SME (conclusasi tragicamente) e dell’Euro. Tale principio è stato recepito nel Trattato europeo e vige per la BCE, nell’unione monetaria dell’euro. In base al Trattato la BCE è l’unica banca centrale al mondo che non può finanziare la spesa dei governi, i quali per indebitarsi fanno ricorso agli istituti finanziari privati che applicano tassi di mercato superiori a quelli che applicherebbe una banca “non indipendente”, sotto il controllo dello Stato. Se l’Italia avesse avuto una Banca centrale sotto il controllo del Ministero del tesoro, ci saremmo potuti indebitare a tassi molto più bassi ed oggi avremo un debito pubblico simile a quello tedesco o francese. Ne discende che i sacrifici imposti ai cittadini con i tagli alla spesa pubblica servono per pagare gli interessi alle banche. Attenzione quindi a quanti attribuiscono le cause del debito agli sprechi all’italiana, alla corruzione,alla casta, ecc., per giustificare tagli recessivi della spesa pubblica e dello stato sociale. Gli sprechi in Italia ci sono e bisogna intervenire, ma senza dimenticare che la vera causa dell’alto debito italiano sono gli interessi che paghiamo ai non meglio precisati “mercati”. Inoltre, per ricapitalizzare le banche sull’orlo del fallimento intervengono sempre gli Stati, con la spesa pubblica (in questo caso non è azzardo morale!),con conseguente aumento dei tagli che gravano sullo stato sociale, in un continuo avvitarsi di risorse che transitano dai cittadini alla finanza. La moneta non è perciò dello Stato ma dei mercati. Quindi l’eurozona è un grande mercato dove si compra denaro e si vende denaro, secondo una concezione prettamente mercantilista. Monti è stato fin dall’inizio uno dei principali sostenitori del principio d’indipendenza della banca centrale.Tanto per fare il conto della serva, il fiscal compact prevede soltanto per l’Italia tagli per circa 1000 miliardi, ovvero 50 miliardi l’anno nell’arco di un ventennio (cifre sottostimate che non tengono conto degli interessi sul debito che maturano ogni anno).Queste cifre sono spaventosamente preoccupanti, tali da ridurre alla fame le prossime generazioni.Ogni mese chiudono migliaia d’imprese italiane e ad oggi registriamo una crescita negativa di -2,4%. Le manovre recessive del governo Monti hanno ulteriormente peggiorato il rapporto debito/PIL. In attesa che arrivi la promessa ripresa, frutto della favoletta dell’austerità espansiva, agitando lo spauracchio dello spread (opportunamente calmierato o istigato a discrezione della BCE), s’impongono riforme urgenti “per evitare di fare la fine della Grecia”.  Quando il paese sarà in ginocchio, vedremo il vero volto degli “architetti” che hanno progettato e costruito questa Europa, che approfitteranno del “liquida tutto” appesi alle serrande delle imprese italiane.Secondo molti commentatori, questo sembra essere il fine ultimo! Fare shopping a buon mercato quando arriverà il tempo dei saldi di fine stagione.Sia inteso che chiunque appoggi il fiscal compact non può essere definito europeista. Il Partito Democratico ha approvato in massa siffatto patto di bilancio in Parlamento, pertanto Bersani si contraddice nel dire che “il PD è il partito più europeista d’Italia”. Oltretutto troppa austerità provoca recessione, come ha ammesso candidamente il Fondo Monetario Internazionale (e mio cugino al primo anno di economia…): “le politiche di rigore che abbiamo chiesto hanno prodotto la più grave crisi recessiva che si ricordi..”. Così hanno commentato gli esperti del FMI sugli effetti delle misure richieste alla Grecia da loro stessi unitamente alla UE e la BCE.
Si ricordi Pier Luigi Bersani quando attaccò la linea del rigore della cosiddetta Troika (FMI, UE, BCE) nei confronti della Grecia:«Mi vergogno di come l’Europa si sta comportando con la Grecia. Si può indurre un paese al rigore, ma non si può ucciderlo. Come Europa non possiamo assistere a uno scempio del genere. I greci sono come gli italiani e i francesi e l’Europa non può massacrare la vita dei comuni cittadini. E’ necessario che l’Europa riprenda quel tratto di solidarietà che l’ha sempre contraddistinta» (Bersani, 15/02/2012). Quando gli effetti recessivi faranno mancare la pastasciutta anche nel piatto degli italiani, i rigoristi dalle lacrime di coccodrillo saranno sicuramente i primi a beneficiare del lancio delle monetine.
Per ritornare al Rapporto-Monti, si riporta un passaggio assai significativo: “E’ realistico ipotizzare che in vari paesi, per ridurre l’enorme debito pubblico, non basterà ridurre le spese e imporre una disciplina di bilancio, ma occorrerà anche aumentare le imposte” (cap. 3.5, pag. 86). Pare avesse le idee chiare già da allora. Verba volant scripta manent!
Nella lettura del documento si avverte una certa concezione alquanto aristocratica ed elitaria del “consenso”, maturata probabilmente nei ben noti ambienti da cui il professore proviene. Il rapporto-Monti pone spesso l’accento sulla necessità di rafforzare il consenso dei cittadini europei attorno al progetto del mercato unico, cercando di far leva più sui vantaggi delle singole raccomandazioni proposte, che sulla ricerca di una reale partecipazione democratica dei cittadini nelle istituzioni europee. Richiama debolmente la necessità di un maggior coinvolgimento del Parlamento Europeo nelle politiche volte ad un rafforzamento del mercato unico, ma evita con cura di proporre una riforma del Trattato che rafforzi il potere dell’unica istituzione rappresentativa eletta democraticamente dai cittadini. Ed è proprio questo il vero anello mancante in Europa: la partecipazione democratica ai processi d’integrazione e l’abbandono degli egoismi nazionali.
Questa Europa non funziona perché si è deciso di promuovere prima l’integrazione monetaria rispetto a quella politica ed economica, pur sapendo scientemente che istituendo una moneta unica in un’area che ancora non avesse raggiunto un sufficiente livello d’integrazione avrebbe creato più danni che benefici.
“Come dice Romano Prodi, l’Ue gioca a lasciare l’Europa mezza fatta e mezza da fare, quando tutti sono consapevoli che l’unica via d’uscita è quella di andare verso l’unità politica” (ansa,  9/7/2012)
Chi ha costruito quest’opera incompiuta è andato avanti comunque, pur sapendo allora quali rischi si correvano. Romano Prodi, il Caronte che ci ha traghettato in siffatta unione monetaria zoppa, nel novembre 2012, ha dichiarato:
“Abbiamo fatto l’Unione economica senza quella politica, ma eravamo coscienti del rischio. Ricordo quando lo dicevo ad Helmut Kohl e lui rispondeva che neanche Roma è stata costruita in un giorno…”
“…Adesso certe misure sono controllate da istituzioni tecniche e non politiche, come la Banca centrale europea. Questo può essere pericoloso…”
“…niente di notevole potrà accadere prima delle elezioni tedesche”. Perché le decisioni “non sono più nelle mani della Commissione europea, ma dei governi. Questa è la volontà dei popoli europei”.

Ancora Romano Prodi, in un’intervista al quotidiano l’Unità (luglio 2012):
“La Germania è la prima a non avere convenienza alla rottura. Dall’Europa e dall’Euro sta guadagnando posizioni di forza e di ricchezza che prima non si sognava di avere […]
…Bisogna rafforzare la casa dell’Europa con quei pilastri che all’inizio non si sono voluti porre. Sapevamo fin dall’inizio che erano indispensabili, ma presto capii che per far ragionare i governi europei si sarebbe dovuto passare attraverso una crisi”.
Caro non ti crucciare, vuolsi così colà dove si puote ciò che si vuole e più non dimandare.
Anche Mario Monti ha parlato di “crisi necessarie” per rafforzare l’Europa:
“Non dobbiamo sorprenderci che l’Europa abbia bisogno di crisi, di gravi crisi, per fare passi avanti. I passi avanti dell’Europa sono per definizione cessioni di parti della sovranità nazionali a un livello comunitario. E’ chiaro che il potere politico, ma anche il senso di appartenenza dei cittadini a una collettività nazionale, possono essere pronte a queste cessioni solo quando il costo politico e psicologico del non farle diventa superiore al costo del farle, perché c’è una crisi in atto visibile, conclamata”… “Abbiamo bisogno delle crisi per fare passi avanti”(Monti, Febbraio 2011)
Sia bene inteso che questa crisi, misurata/controllata dallo spread, è necessaria, non per ottenere una più stretta integrazione, ma è l’occasione ghiotta per far passare alla svelta tutte quelle riforme che renderanno l’Europa un mercato di sbocco per le merci e i capitali dei moderni mercantilisti globalizzati.
Chiunque provi a criticare questa costruzione europea è definito antieuropeista, nazionalista, populista, complottista, ecc. Nessun commentatore serio metterebbe in discussione l’irreversibilità del processo storico che ci ha portato alla costituzione del mercato unico europeo che, come abbiamo visto, non può che produrre indubbi vantaggie qualsiasi rigurgito nazionalista nella direzione opposta sarebbe antistorico e scellerato. Ciò che è in discussione è l’unione monetaria dell’euro, che non si regge in piedi senza prima aver raggiunto un adeguato livello d’integrazione politica ed economica.Ci sono vari studi e varie posizioni di economisti che esprimono forti perplessità circa la tenuta dell’Eurozona, ma nessuno di essi si è mai sognato di suggerire l’abbandono del mercato unico. Lo stesso premio Nobel Paul Krugman ha previsto le numerose criticità dell’Eurozona, ancor prima che si costituisse e le ha ribadite nel suo ultimo libro.Una vera politica economica “europeista” avrebbe dovuto occuparsi per tempo della regolamentazione e la vigilanza bancaria, del controllo del debito privato, del coordinamento delle politiche salariali e dei tassi d’inflazione e di numerosi altri fattori determinanti per garantire la sostenibilità del sistema monetario, anziché farsi prendere dall’infondata isteria dei tagli del debito pubblico. Attualmente si levano numerose voci fuori dal coro, in particolare fra gli economisti Keynesiani,che sembrano i più efficaci nello smontare i numerosi dogmi neoliberisti e nel descrivere le vere cause della crisi economica. Abbiamo ottimi esempi italiani: Emiliano Brancaccio, Alberto Bagnai, Sergio Cesaratto, Gustavo Piga, Alberto Borghi Aquilini, Gennaro Zezza, ecc.
Se la sostenibilità dell’euro,in linea teorica, è tecnicamente possibile, a condizione che si promuovano politiche economiche di coordinamento fra gli Stati membri, il problema è sicuramente la VOLONTA’ POLITICA di procedere in questa direzione. Questa nuova integrazione presuppone una revisione del Trattato di Maastricht, l’abolizione del fiscal compact, e l’effettivo impegno per un più stretto coordinamento della politica economica, superando le logiche mercantiliste, proprie dei veri antieuropeisti. E’ un processo assai complesso e, nel breve termine, sarà molto difficile trovare il bandolo della matassa,finché non si svolgeranno le elezioni del 2013 in Germania, come osserva Romano Prodi. Con tutta probabilità finché le morse della crisi non stritoleranno più gravemente la Francia, i tecnocrati europei continueranno a menar il can per l’aia, mettendo una toppa qua e la alla crisi, recitando una commedia già vista.Si devono vagliare tutte le iniziative possibili per verificare la fattibilità del processo d’integrazione politica in questo momento storico e, duole dirlo, se tale processo risultasse vano, valutare i costi di una permanenza nell’Eurozona, e trarre le dovute conseguenze, con disincanto, senza pregiudizi e illusioni. Delle volte è meno costoso buttare giù un rudere e ricostruirlo daccapo piuttosto che ristrutturalo. Non vorrei che in futuro i mercati e gli spread,oltre a scegliere i governi, decidessero per Noi quello che oggi non abbiamo la lucidità e il coraggio di fare. Si ascoltino gli intellettuali e gli economisti e li si aiuti nel loro complesso lavoro di ricostruzione e divulgazione delle vere cause dell’attuale crisi, per essere più lucidi nel proporre una linea politica europea di rinnovamento più consapevole, un percorso che non deve mai arrestarsi. Questo è un appello che rivolgo alle donne e uomini di buon senso che hanno a cuore il destino dei popoli europei.>>
 Alessandro Mura

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