sabato 10 agosto 2013

Le pillole rosse - 6° pillola: pubblico è brutto e privato è bello

"E' divenuto oramai un detto comune che gestione privata equivale a efficienza mentre gestione pubblica è sinonimo di inefficacia e di spreco. Può anche darsi che nella realtà storica del nostro paese, o almeno nella realtà storica di alcune regioni del paese, le cose stiano davvero così. Ma questo, lungi dall'autorizzarci a trarre generalizzazioni indebite e superficiali, ci deve indurre ad approfondire le ragioni di questi fatti. Fino ad una quindicina di anni or sono, l'assetto economico e sociale del nostro paese è stato oggetto di critiche, ragionate quanto severe, da parte dei partiti della sinistra. In un passato ancora recente, nessuno avrebbe considerato il settore pubblico italiano come un settore modello. Nessuno avrebbe però attribuito le pecche dei servizi pubblici al fatto di essere gestiti dallo Stato, ma se mai al fatto di essere gestiti da questo Stato, e cioè dalla consociazione di poteri politici che ha avuto nelle mani la gestione della cosa pubblica. Da una quindicina d'anni a questa parte, la prospettiva è cambiata. Oggi, a destra come a sinistra, si dà per scontato che il pubblico sia inefficiente in quanto pubblico: una inefficienza per natura, quindi, e non imputabile al malgoverno." (Augusto Graziani: da "L'economia italiana dal 1945 ad oggi" grassetto mio).
In effetti le parole di questo grande economista italiano definiscono perfettamente quello che ancora oggi è il pensiero comune della gente e, naturalmente, dei liberisti fautori delle privatizzazioni.
Ma, come ormai ha imparato chi segue le "pillole rosse", bisogna non accettare supinamente il pensiero comune, specie se avallato da chi, come abbiamo visto, ci ha raccontato e continua a raccontarci la realtà di Matrix, ed allora iniziamo a farci delle domande: che differenza c'è fra pubblico e privato? Perché lo Stato gestisce alcuni servizi? E se li gestisce il privato cosa cambia?
Partiamo dalla differenza fra pubblico e privato. Intuitivamente, anche chi non è un giurista comprende che quando parliamo di "pubblico" parliamo di un ente locale o statale che gestisce un insieme di servizi e beni che vengono erogati a favore della collettività; i primi che vengono in mente sono l'acqua, la nettezza urbana, i trasporti, le strade e la scuola, ma ce ne sono tanti altri. Naturalmente nulla impedisce che una buona parte di questi servizi possano essere gestiti da privati, ma evidentemente non tutti: la polizia, ad esempio, e per ovvie ragioni, deve rimanere pubblica, così come il demanio o la gestione del catasto. Per quelli però che possono essere gestiti anche da privati, come i trasporti o la scuola, che differenza c'è?
Per capirlo dobbiamo esaminare le finalità che hanno il pubblico ed il privato: sinteticamente si può affermare che il gestore pubblico trova il fondamento del suo agire nella Costituzione, il privato nel Codice Civile, ovvero, mentre il pubblico è vincolato a perseguire gli scopi costituzionalmente posti al suo agire, il privato agisce per qualsiasi suo interesse, in quanto tutelato dal Codice Civile come meritevole. La differenza è notevole, come si può intuire: il privato trova di solito nel profitto economico lo scopo ultimo di ogni sua azione ed è giusto così, il pubblico invece, non solo non ha questo scopo, ma, attenzione, non deve avere questo scopo; la Costituzione infatti prevede all'art. 97 come requisiti all'azione della Pubblica Amministrazione il "buon andamento" e "l'imparzialità", non certo la redditività o l'economicità. Questo comporta che, per permettere il raggiungimento delle finalità costituzionali (garantire la salute dei cittadini, la loro sicurezza, la possibilità di muoversi, ecc.) senza discriminare nessuno lo Stato a volte deve agire in modo antieconomico. Questo è il punto fondamentale: se un paese è sperduto o isolato, i suoi cittadini hanno pari diritto ad avere la possibilità di prendere un mezzo di trasporto, di essere curati, di avere un presidio di sicurezza, una istruzione di base e così via, anche se ciò comporta un costo superiore al ricavo. Ecco perché lo Stato deve comunque gestire dei servizi, non solo perché alcuni sono di loro natura pubblici, ma soprattutto perché solo lo Stato può garantire che tutti i cittadini ne godano, che sia economicamente profittevole o no la loro dazione.
Cosa succede quindi quando un servizio prima pubblico viene affidato ad un privato? La prima cosa è che
tale servizio acquista una nuova finalità, che diventa sempre e comunque prevalente su tutte le altre: creare profitto. E per creare profitto le regole sono sempre le stesse: tagliare, ottimizzare e risparmiare.
Vediamo l'esempio di una classica privatizzazione: le ferrovie. Ci aiutiamo con un  pregevole e completo saggio storico della studiosa Daniela Manente intitolato "Il lungo treno della privatizzazione: da Ferrovie di Stato a ferrovie di libero mercato. Trent'anni di trasformazioni raccontate dai ferrovieri" che trovate in estratto qui .
Nel 1992 il vecchio Ente Ferrovie dello Stato viene trasformato in Ferrovie dello Stato spa, la ragione, come in ogni privatizzazione, venne giustificata dalla necessità di svincolare l'azienda dall'influenza della politica, dal renderla più distante da essa; il primo effetto fu un drastico ridimensionamento del personale: nel 1985 il numero degli addetti era di 216.310 unità, nel 1999 erano diventati 112.018, circa il 48% in meno. A questo taglio draconiano, effettuato per recuperare la produttività per addetto del lavoro, non corrispose però un altrettanto forte piano di investimenti per l'ammodernamento e l'espansione degli impianti esistenti, unico fattore che avrebbe potuto portare a sostenere la produzione, pur con il calo degli addetti. Il risultato fu che tra calo del personale ed arretratezza tecnologica, l'organizzazione del lavoro saltò; come riferisce un addetto "Il personale è diminuito così tanto che non abbiamo neanche più persone per usare le macchine; infatti noi abbiamo macchine ferme che costano soldini, inutilizzate perché non abbiamo il personale per poterle usare, siamo carenti di personale" (ibidem intervista 15 Padova 2005). Per coprire le difficoltà la dirigenza ricorse al c.d. "straordinario selvaggio" con un uso massiccio di prestazioni straordinarie per i turni di lavoro scoperti, utile anche a superare le rigidità di orario di lavoro previste per i lavoratori turnisti.
Nel 2000 nasce Trenitalia e viene creata la società Rete Ferroviaria Italiana (RFI) che ha la gestione delle infrastrutture, ne cura la manutenzione e ne programma gli investimenti; a Trenitalia viene affidata la gestione dei trasporti con delle divisioni interne a seconda delle varie aree di business. Questo "spezzatino" provoca subito degli inconvenienti: come commenta un ferroviere "Da quando c'è stata la divisione i macchinisti che sono stati inseriti nel trasporto regionale fanno solo trasporto regionale quelli inseriti nel trasporto merci fanno solo quello. Per esempio, se mi manca un tecnico per riparare una locomotiva merci non lo posso recuperare tra coloro che riparano le locomotive passeggeri" (ibidem, intervista 2 Mestre 2005).
Afferma la studiosa:
Ai problemi creati dalla divisionalizzazione si sommano quelli generati da una copiosa fuoriuscita di lavoratori e dalla flessibilizzazione del lavoro, elementi indispensabili dal punto di vista della dirigenza per il recupero della produttività individuale del lavoratore ai fini del livellamento del trattamento dei ferrovieri rispetto alle altre categorie di lavoratori. Si confonde pertanto la precarizzazione e la flessibilità con l'efficienza, in nome di una astratta esigenza di equità che richiede di assoggettare le condizioni di lavoro dei ferrovieri alle forme di precariato comunemente accettate per altre tipologie di lavoro. In nome di una efficienza e di un contenimento dei costi, spesso non supportati da una adeguata valutazione degli effetti connessi alle scelte strategiche, vengono ignorati gli elementi di estrema complessità caratteristici della circolazione ferroviaria, accettando di disperdere professionalità acquisite in un lungo arco di tempo.
La ricerca del profitto, nel caso delle ferrovie italiane, ha portato quindi a tagli del personale, anche e ben al di là del giusto snellimento di un Ente che era indubbiamente elefantiaco, con conseguenza dispersione e perdita di professionalità, flessibilizzazione estrema e sfruttamento di quello rimasto, mancato investimento in innovazione (la bandiera sventolata costantemente da chi giustifica ed auspica le privatizzazioni) e una suddivisione in dipartimenti che, non solo fa perdere efficienza, data la non interscambiabilità, ma provoca diseguaglianze nel servizio, con il quasi abbandono di tratte poco remunerative e la concentrazione delle risorse su quelle a più alto rendimento.
Magari il caso ferrovie sarà un caso isolato: vediamo quindi come sono andate le privatizzazioni della gestione del sistema idrico, là dove attuate.
Secondo i dati ufficiali dell'Istat e di Federutility del 2012, nei Comuni dove il servizio è stato privatizzato il costo dell'acqua è aumentato sensibilmente: ad Aosta da quando è stata privatizzata vi è stato un aumento del 42%, a Palermo del 35% a Roma del 21%; a fronte di una media nazionale di € 290 per un consumo di 200 metri cubi all'anno (il consumo medio di una famiglia di tre persone) a Bari il costo è di € 373, a Genova di € 391, mentre a Firenze si arriva ad € 503.
Si dirà: d'accordo le tariffe sono aumentate, ma il servizio sarà più efficiente; se si prende per efficienza la tenuta degli acquedotti, secondo il rapporto Legambiente-Ecosistema urbano 2012, le cose non stanno così: Firenze ha il 30% di dispersione idrica, Aosta il 34%, Bari il 35% e Roma il 36%, su una media nazionale del 33%; Palermo, poi, svetta come tutto il Sud, con una dispersione del 52%.
In definitiva nessun miglioramento vi è stato nel'efficienza degli impianti idrici nonostante la privatizzazione: il profitto per i privati è però mediamente stato del 20%.
All'estero non è andata meglio: se volete un quadro delle privatizzazioni dell'acqua in Inghilterra e Galles vi rimando all'istruttiva lettura dello studio di www.socialistdemocracy.org, qui riassunto.
La conclusione che possiamo trarre, ovvero la pillola rossa che ci mostra la realtà vera, è che la gestione del privato, rispetto a quella del pubblico, lungi dall'essere più efficiente e permettere maggiori investimenti, tendendo alla massimizzazione del profitto, comporta sempre e costantemente la riduzione del personale fino ai livelli minimi che garantiscano comunque il funzionamento, attraverso lo sfruttamento massiccio e la flessibilizzazione dei lavoratori rimasti, un livello di investimenti minimizzato al mantenimento del servizio, con investimenti mirati al potenziamento solo nelle aree di maggior redditività (ove queste possano essere individuate), con la creazione di zone privilegiate di qualità superiore e larghi strati di servizio di qualità minima, a volte peggiore di quella precedente.
No, decisamente, il privato non è così bello come lo dipingono... 

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