mercoledì 11 settembre 2013

Svalutazione e prezzi: chi ci guadagna e chi ci perde.

Questo post nasce dall'esigenza (mia, ma spero anche di vostro interesse) di approfondire il contenuto di una pillola rossa di qualche tempo fa.
Dopo aver visto cosa accade ai prezzi di benzina e mutui ed ai costi di produzione, cercherò di analizzare più in dettaglio cosa accade in generale ai prezzi dei beni nel caso di un ritorno ad una valuta nazionale con conseguente svalutazione del suo valore rispetto ai paesi esteri: questo punto, che tanto e giustamente spaventa la gente comune (grazie alla costante e martellante opera di disinformazione dei nostri media) è anche il terreno più aspro di scontro fra chi si interessa di economia. Vediamo di fare un po' di chiarezza in modo comprensibile.
Innanzitutto ormai sappiamo (e se non lo sapete vuol dire che siete capitati qui per caso e quindi vi consiglio di leggervi prima la serie delle "pillole rosse"...) che svalutazione non è uguale ad inflazione: il pass-trough (termine tecnico che indica la quantità di svalutazione che si trasforma internamente in inflazione) è una percentuale che mediamente può oscillare tra il 20% ed il 40% e dipende da molti fattori; ipotizziamo una media del 30%. Qual'è l'effetto immediato di una svalutazione fra un paese A che svaluta rispetto ad un paese B? I beni prodotti dal paese A diventano più convenienti a parità di prezzo per i cittadini del paese B e viceversa, quindi l'effetto immediato è un aumento di esportazioni di A verso B ed una diminuzione di importazioni dei prodotti di B da parte di A. La prima domanda che sorge spontanea è: di quanto diminuisce il prezzo estero dei prodotti di A?
Come abbiamo già visto nella seconda pillola normalmente i costi di produzione sono condizionati prima di tutto dal costo del lavoro, poi dagli altri costi di produzione (materie prime, energia, trasporto, costi fissi): gli economisti liberisti ci dicono che solo se il salario del lavoratore viene compresso in termini reali, ovvero, in termini più semplici, in caso di aumento dell'inflazione il salario aumenta meno di essa, allora la svalutazione ha effetti positivi sul PIL, altrimenti l'effetto è nel medio periodo nullo. Facciamo due calcoli.
Ipotizzando una svalutazione del 30% (cifra non presa a caso, visto che è la svalutazione attesa in caso di uscita dell'Italia dall'euro per le ragioni che sappiamo) ed un pass-trough del 30% l'inflazione che ne deriverebbe sarebbe al massimo il 30% del 30%, ovvero il 9%. Perché al massimo? Perché l'inflazione non è un meccanismo automatico, ma dipende da tanti fattori congiunturali, per cui, in determinate circostanze, può aversi un'inflazione minore, non aversi inflazione o addirittura aversi una deflazione! Faccio una piccola digressione: guardate questo grafico:


chi ha letto le "pillole" in questo blog lo ha già visto: è il grafico storico del rapporto svalutazione/inflazione in Italia. Nel 1992 a fronte di una svalutazione del 20% avemmo l'anno successivo addirittura una variazione dell'inflazione negativa, passando dal 5% al 4%! Questo perché uscendo dallo SME, che, come adesso l'euro, ci bloccava il cambio, le esportazioni che erano state compresse, ripartirono di colpo, i fattori produttivi, che erano sottoutilizzati, ritornarono a regime e l'aumento dell'offerta, dei margini di profitto e la paura di perdere quote di mercato tenne sotto controllo i prezzi.  Se vi interessa avere una testimonianza diretta, una informazione "storica" è utile leggere i ricordi in prima persona di un imprenditore dell'epoca; la cosa istruttiva è che anche allora da parte delle autorità monetarie, politiche ed industriali interessate a mantenere un cambio fisso (e sopravvalutato) vi fu un coro che prediceva sventura e calamità in caso di svalutazione: "Carlo Azelio Ciampi" - ricorda l'imprenditore - "si sgolava ogni giorno per ribadire che l’Italia non doveva svalutare e che una valuta forte obbligava l’amministrazione pubblica ad essere più virtuosa mentre l’industria privata avrebbe dovuto orientare gli investimenti verso le produzioni ad alto contenuto tecnologico con elevato valore aggiunto." Vi ricorda qualcosa? Alla fine, nonostante l'accanita difesa del cambio, che portò a bruciare tutte le riserve della Banca d'Italia, la lira dovette essere svalutata: e cosa accadde? Nulla di quanto predetto: "Alle banche piccole, medie o grandi non internazionalizzate non provocò nessun danno in quanto avevano impieghi e raccolta in lire e lo stesso fu per tutte le istituzioni, pubbliche e private, non indebitate in valuta estera. In ogni caso non ci furono fallimenti tali da determinare danni rilevanti alla finanza. (...) Per i beni prodotti in Italia, che allora erano la stragrande maggioranza, gli incrementi dei prezzi seguirono un trend di incrementi poco più del normale. L’incidenza delle materie prime importate quasi sempre è una componente bassa del prezzo finale dei beni con queste prodotti. Anche la benzina ebbe un aumento ben minore dell’incremento del costo del petrolio in lire dovuto alla svalutazione.
Per quanto riguarda poi i beni voluttuari d’investimento, quali automobili o elettrodomestici di provenienza estera anche qui ci fu un incremento abbastanza modesto. Le aziende estere presenti in Italia pur di non perdere troppe quote di mercato in favore delle industrie italiane accettarono di ridurre di molto i propri margini di guadagno nel nostro mercato che erano diventati allora per loro molto elevati. Anzi, nel settore auto, molte case straniere vendettero per alcuni anni addirittura sottocosto, pur di non consegnare il mercato italiano in ampia prevalenza al costruttore nazionale. Ma cosa successe invece all’economia reale italiana, composta da piccole e medie industrie export oriented? Il lavoro per le aziende italiane riprese a tutta birra, dapprima e per ovvie ragioni per quelle esportatrici poi, con un certo sfasamento, per tutto il tessuto industriale italiano. Il portafoglio ordini era sempre gonfio e in crescita, gli investimenti delle imprese ripresero freneticamente, gli utili si gonfiarono come da anni non si ricordava e l’occupazione nell'economia reale ebbe un vero e proprio boom.
Inoltre, buona parte delle lavorazioni del manifatturiero che avevano cominciato a prendere la via della delocalizzazione rientrarono precipitosamente per le ottime condizioni di competitività che l’Italia aveva riconquistato. Insomma, l’economia reale italiana visse dopo il 1992 gli ultimi anni di grande splendore." Non siete convinti dei ricordi dell'imprenditore? Eccone la prova tratta da un altro grafico già familiare a chi mi legge: 



concentratevi sul periodo dal 1993 al 1996: la produzione industriale rispetto al nostro principale competitor internazionale (Germania) decolla, superandolo, facendo dell'Italia una vera locomotiva lanciata alla conquista dei mercati. Dal 1996 iniziano le manovre fiscali per l'avvicinamento all'euro e la produzione ha una flessione ed il resto è storia recente che il grafico sintetizza efficacemente...
Chiusa la digressione,torniamo al nostro esempio del paese A.
Se quindi abbiamo un sistema (auspicabile) di indicizzazione con aggancio dei salari all'inflazione, questi aumenterebbero fino al 9%, come costo per l'azienda. Veniamo ora al costo delle materie prime. Il costo delle materie prime e degli altri fattori di produzione variabili, incidono per un 30/40%, ma attenzione non tutte sono di importazione e non tutte le importazioni costano uguali; quello che ci si dimentica infatti è che la svalutazione è sempre verso qualche altra moneta e che se il paese A svaluta del 30% verso il paese B non è detto che verso il paese C o D svaluti della stessa percentuale. Ora se il paese D è un paese produttore di materie prime o, cosa che fa lo stesso, il costo delle materie prime di D è calcolato sulla moneta di C (quello che accade per il dollaro su cui si basa il prezzo del petrolio arabo), allora quello che interessa è quanto si svaluta la moneta di A verso D (primo esempio) o la moneta di A verso C per comprare da D (secondo esempio). Il risultato è che il costo di alcune materie prime può essere minore (o maggiore) con benefici (od aggravi) per l'azienda. Il discorso naturalmente vale anche per i semilavorati ed i componenti che il paese A importa da altri paesi, conseguentemente il calcolo dei costi di produzione non è così lineare; comunque per semplicità. ipotizzando esageratamente che la metà dei fattori di produzione sia totalmente di importazione e che anche nei confronti dei paesi da cui importa l'azienda di A la svalutazione sia del 30%, avremo un'aumento del 30% di un 20% dei costi di produzione, ovvero un aumento del 6% (30x20:100=6).
Quindi l'azienda di A che esporta vedrà aumentare i costi al massimo di un complessivo 15% (9+6) a fronte di una diminuzione di prezzo data dalla svalutazione del 30%, con una diminuzione di prezzo effettiva del 15% sul mercato internazionale: questo è il vantaggio competitivo reale della svalutazione.
In effetti il vantaggio, a parità di fattori di costo, sarebbe persino maggiore: come è intuibile, mentre il giorno dopo la svalutazione il prezzo all'estero scende immediatamente, il costo dei fattori di produzione non sale altrettanto rapidamente; i salari aumenteranno, se indicizzati, in un tempo abbastanza breve, ma non nell'immediato, e gli altri fattori ancora più lentamente, in quanto è ipotizzabile che una certa scorta di materie prime e componenti importati sia presente già nell'azienda, acquistati al prezzo precedente la svalutazione. 
Qual'è l'effetto di questo vantaggio? Ovviamente una maggiore richiesta estera di beni, diventati più convenienti e quindi un'aumento di produzione, con aumento del margine di profitto e del salario nominale via indicizzazione prima e successivamente aumento dell'occupazione.
Cosa accade nel mercato interno di A? Qual'è l'effetto sui redditi? Chi ci guadagna e chi ci perde? Si dice: l'inflazione provocata dalla svalutazione renderà più cari tutti i beni e chi non beneficia direttamente degli aumenti salariali nominali effettuati dalle aziende esportatrici vedrà erosa la sua possibilità di acquistare beni, con una perdita netta, e tutti si impoveriranno ed i consumi caleranno e le produzioni scenderanno, annullando i vantaggi delle esportazioni e insomma sarà "pianto e stridor di denti"...! Questo è l'effetto paventato sui redditi dei lavoratori con il quale i detrattori della svalutazione spaventano noi cittadini dalle colonne di prestigiosi giornali o dallo schermo delle televisioni. Ma non è proprio così.
Innanzitutto i beni prodotti da aziende di A che non hanno componenti d'importazione non aumenteranno di prezzo immediatamente, ma solo ed eventualmente nel medio-lungo periodo, a seconda del tasso di inflazione che si sarà verificato, come è accaduto anche nel 1992: chi lavorava materie prime italiane non ha aumentato i prezzi, poiché i costi ed il margine di profitto era rimasto invariato; poi ci sono beni che vengono prodotti con apporto marginale di materie prime estere, di solito l'energia (gas, petrolio): anche questi non hanno alcun interesse ad aumentare i prezzi a scapito delle proprie quote di mercato interno, dato che un aumento di prezzo farebbe scendere la domanda di tali beni, per cui manterrebbero nel breve lo stesso prezzo, anche a fronte di una lieve riduzione del margine di profitto. Ma anche le aziende con significativo apporto di beni esteri nella loro produzione non scaricheranno sul prezzo tutto l'aumento, e ciò per due ragioni, che poi sono quelle riferite dall'imprenditore e che puntualmente si sono verificate: la prima è che a fronte di un aumento del volume delle esportazioni possono tollerare una certa compressione dei margini di profitto interni, per cui i prezzi possono rimanere stabili o aumentare molto meno del tasso tendenziale di inflazione; la seconda è che la concorrenza estera (il paese B, ma anche C, D. F, ecc.), diventata più cara, cercherà di non perdere quote di mercato tenendo i propri prezzi uguali o di poco sopra il livello precedente, costringendo le imprese domestiche in concorrenza diretta a fare altrettanto.
Il consumatore quindi, solo per i beni che sono prodotti con forte apporto di materie prime estere e che si rivolgono prevalentemente od esclusivamente al mercato domestico, vedrà aumentare significativamente il loro costo, ma dalla situazione in generale ne avrà un beneficio: essendo anche di norma un lavoratore o in cerca di occupazione, avrà il vantaggio di una economia che riparte, ovvero possibilità di trovare lavoro se non ce l'ha, possibilità di continuare a lavorare senza rischio di essere licenziato, se dipendente, o dover chiudere, se autonomo, e prospettive di aumento di stipendio o di incassi derivanti dal maggior denaro circolante e dal conseguente aumento generale della domanda di beni e servizi e quindi di lavoro.
Questo per i lavoratori e gli occupandi. Ed i pensionati? Beh, per questa categoria, indubbiamente già svantaggiata, si tratta di scegliere di acquistare beni non importati, come sono di solito i beni di prima necessità, e di fare dei piccoli sacrifici, soprattutto sostituendo beni esteri, diventati costosi, con beni nazionali o con beni di paesi più convenienti, con la prospettiva che l'aumento della produzione e del PIL si rifletta sui prezzi dell'offerta dei beni primari, tenendoli fissi o addirittura facendoli scendere e che la propria pensione subisca degli aggiustamenti al rialzo per le migliorate condizioni dello Stato. Perché ricordiamocelo: più guadagnano i privati e più denaro entra nelle casse dello Stato, via tassazione diretta ed indiretta, a parità di aliquota.
Chi ci perde sicuramente da una svalutazione? Chiunque non sia un lavoratore, non esporti e non subisca la concorrenza estera, magari essendo monopolista, oltre naturalmente a chi vive di rendita. Questi sono gli unici e veri soggetti tutelati da una valuta forte, anche sopravvalutata: se mi è permesso, un po' poco per permettere il massacro di tutti gli altri...

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