venerdì 17 gennaio 2014

Il semestre italiano for dummies



''Se la crescita o la stabilità ci sono solo in Germania, questa cosa fa male anche alla Germania'' (11 novembre 2013); ''Dare energia a un'Europa che ha le batterie scariche... bisogna interpretare la nostra presidenza come quella che chiude il periodo di sola austerità per aprire quella della stabilità e della crescita in Europa e in Italia'' (11 dicembre 2013); "La lotta alla disoccupazione giovanile sara' la bandiera del nostro impegno, uno dei titoli principali del semestre di presidenza italiana'' (20 dicembre 2013); "Il nostro semestre e' l'inizio della nuova legislatura europea, e avrà la possibilità di indirizzare l'Unione europea verso la strada delle politiche per la crescita... o l'Europa mette in campo politiche fortissime contro la disoccupazione o sara' sempre più lontana dai cittadini" (10 gennaio 2014).

Questa una raccolta delle ultime dichiarazioni di Enrico Letta sul semestre di presidenza italiano che comincerà a giugno (dopo quello greco attualmente in corso, sul quale è sorta qualche polemica). Per il governo italiano e per il PD questa è l'ultima spiaggia per cercare di risollevare l'idea di Europa unita e quindi le proprie sorti che ad essa sono ormai appese, idea pesantemente andata in crisi con il perseverare delle difficoltà economiche, viste, non a torto, come il frutto delle ricette di austerity imposte dalla Commissione europea. Da qui il florilegio di dichiarazioni ottimistiche ed improntate ad un cambio di rotta che l'Italia sarà in grado di fare, orientando l'azione dell'EU a politiche di sviluppo ed occupazione, alla tanto agognata crescita.

Ma siamo sicuri che queste politiche si possano fare? E siamo sicuri che, in queste condizioni, una crescita ci farebbe bene? E già, sembra incredibile, ma anche questa è una domanda legittima: la trappola dell'euro ha degli effetti perversi... In parole povere: che significato reale hanno questi proclami?

Cominciamo col rispondere alla prima domanda.

Ormai nei paesi del Sud Europa è diventato il mantra dei politici e governanti: il rigore ci ha fatto bene, ma ora basta è tempo di pensare alle politiche per la crescita, via alla creazione di posti di lavoro. Già, ma come? E qui il discorso si complica. La risposta più comune è: bisogna rendere flessibile il rapporto di impiego, diminuire il costo del lavoro per le imprese, rinunciare a qualche diritto in cambio di maggiore stabilità; questo è ad esempio il fulcro del Job Act di Renzi: rinunciare alla sicurezza del posto di lavoro per i primi tre anni in cambio dell'assunzione a tempo indeterminato. Come si nota, le risposte al problema della disoccupazione e della crisi produttiva sono tutte politiche ""supply side", cioè orientate a favorire la produzione, l'offerta di beni e servizi: peccato che il problema non sia questo.

fonte: euromonitor
Questo grafico mostra le risposte delle PMI europee alla domanda: quali sono i più urgenti problemi che vi trovate ad affrontare nell'eurozona? Il 27% delle aziende pongono stabilmente come più grave problema "trovare clienti", seguito dal 16% che indicano "l'accesso ai finanziamenti", mentre il problema dei costi di produzione è sentito come pressante dal 14% degli intervistati. In Italia il sondaggio Zurich dell'ottobre del 2013 da risultati ancora più marcati: il 35% delle PMI italiane teme il calo della domanda.
Se la domanda dei consumatori è quindi il problema più grave, perché si insiste in politiche dal lato dell'offerta? Perché sono le uniche che l'euro permette e perché stimolare la domanda paradossalmente peggiorerebbe i nostri conti. Cerco di spiegare il perché.

Il problema di fondo dell'euro lo abbiamo già visto: l'impossibilità di agire sul cambio porta al recupero della competitività attraverso la svalutazione reale dei costi di produzione e il maggior costo di produzione è il lavoro; ora per stimolare la domanda dovrebbe crescere il reddito delle famiglie e questo può crescere solo in due modi: o con aumenti di stipendi e salari (anche attraverso l'impiego dei disoccupati) o con il credito. La crescita attraverso il credito è stato il meccanismo che ha sostenuto la domanda fino al 2008: i prestiti facili, le rateizzazioni senza interessi, i tassi bassissimi di finanziamento sono stati i strumenti per aumentare i consumi; peccato che tutte queste disponibilità erano soldi che provenivano dall'estero e che hanno portato alla una situazione qui rappresentata:



I saldi qui rappresentati sono i rapporti di attivo/passivo delle banche centrali europee sui conti correnti della BCE: notate che la Germania risulta con un attivo netto che a maggio 2012 si attestava sui 750 miliardi di euro e che, tranne pochi Paesi del Nord, come la Finlandia o l'Olanda che sono in leggero attivo, tutto il resto dell'Eurozona è in passivo, con Spagna ed Italia pesantemente esposte. L'attivo della Germania rappresenta la cifra dei crediti che la Bundesbank ha accumulato, sia prestando alle banche centrali dei Paesi in difficoltà, le quali a loro volta finanziavano le banche private in sofferenza, sia per l'afflusso di capitali privati, che fuggono dal pericolo di un break up dell'euro, dalle banche del Sud Europa a quelle del Nord (soprattutto tedesche), capitali che queste ultime, non impiegando in prestiti interni, depositano presso le loro banche centrali, facendo così aumentare il saldo del conto presso la BCE. Questo ci da indirettamente l'ammontare del denaro che inizialmente era defluito soprattutto dalla Bundesbank alle banche centrali dei Paesi periferici, per coprire la richiesta di prestiti e, come abbiamo detto, finanziare la domanda: si tratta di somme enormi che hanno drogato le economie del Sud Europa, secondo il noto meccanismo del c.d. Ciclo di Frenkel, magistralmente descritto qui.

Poiché il tempo dei prestiti dall'estero è (direi fortunatamente e mai troppo presto) finito l'unica alternativa per aumentare la domanda rimane quindi l'aumento dei redditi dei cittadini. E qui sorge un altro problema. Chi può farlo? Il settore privato delle imprese chiaramente no, se non c'è domanda ed i profitti scarseggiano come faccio ad aumentare salari e stipendi o ad assumere? Rimarrebbe il settore pubblico, la famosa leva pubblica degli investimenti, che nei manuali di macroeconomia dei miei tempi era considerata la strada maestra in momenti di crisi. Peccato però che l'euro, oltre a far perdere competitività alle aziende private, ha anche un altro difettuccio: è sostanzialmente una moneta straniera per tutti gli Stati dell'Eurozona. Nessun Paese infatti può stampare autonomamente euro (per autonomamente intendo per propria sovrana decisione: è chiaro che ogni Stato ha una sua Zecca abilitata a stampare euro, ma nel quantitativo indicato dalla BCE) per finanziarsi e quindi è costretto a richiedere il denaro occorrente per l'investimento pubblico, o ai propri cittadini, tramite le tasse, o sul mercato dei capitali, emettendo titoli di debito e collocandoli presso gli investitori. Il primo metodo ovviamente acuisce il problema, togliendo reddito alle famiglie, il secondo aumenta il fabbisogno, quindi il deficit dello Stato. Potrebbe non essere un problema, se non fosse che, con la partecipazione all'Unione Monetaria, abbiamo sottoscritto dei patti precisi e vincolanti: fabbisogno non oltre il 3% annuo e, soprattutto, pareggio di bilancio, tanto spendi, tanto devi incassare, che è un'ottima regola per le famiglie, ma una pessima per uno Stato che, giova ribadire, non è una famiglia, né un'impresa e deve agire con logiche diverse, se vuole svolgere i suoi compiti istituzionali, come ho spiegato qui e qui.

Ho detto che l'aumento del deficit potrebbe non essere un problema, se portasse ad investimenti pubblici che stimolano i redditi privati e quindi la domanda. Invece lo è ed è la risposta alla seconda questione che ci siamo posti all'inizio: la crescita, nelle condizioni attuali, ci farebbe bene? No. E' un altro dono avvelenato che la nostra amata moneta unica ci elargisce: un aumento della domanda, senza riequilibrio del differenziale inflattivo accumulato con la Germania, ci porterebbe di nuovo a dei deficit della bilancia dei pagamenti, ovvero all'accumulo di nuove passività con l'estero.

Se infatti aumentassero i redditi per merito di un'azione pubblica di investimento e domanda, i privati consumerebbero di più, ma consumerebbero soprattutto beni esteri, per la semplice ragione che essi costano meno degli equivalenti nazionali. A meno che non facessimo come i giapponesi che riescono, quando necessario e compattamente, a decidere di consumare solo prodotti nazionali, che siano convenienti o meno e migliori o peggiori degli altri, una famiglia media italiana, che ha ovvi problemi di budget e che anche con un aumento del reddito non si troverebbe certo nel pieno benessere (almeno inizialmente), o un nuovo assunto che si troverebbe sì ad avere finalmente un reddito, ma anche lui non certo cospicuo, rivolgerebbero razionalmente la loro spesa per consumi sui prodotti meno cari, a parità di qualità. Pensate poi se il prodotto meno caro fosse anche qualitativamente un po' superiore! Bene, avendo accumulato un differenziale di inflazione e quindi di prezzo con la Germania di circa il 30%, i prodotti di questa risultano mediamente essere meno cari di questa percentuale rispetto ai nostri (quelli francesi sono meno cari di circa il 10/15%), anche su beni di largo consumo e non ad alto valore aggiunto tecnologico, come i prodotti alimentari. Chi di voi ha visto su Youtube il "mitico" Lambrenedetto (meglio detto Lampredotto...) estasiato in un supermercato tedesco di fronte ad alcuni prodotti locali, tanto meno cari dei nostri o degli stessi venduti qui in Italia, sa cosa intendo: i prezzi tedeschi e dei beni tedeschi (per ragioni già esaminate a suo tempo) sono sostanzialmente meno cari dei nostri, quindi un aumento dei consumi provocherebbe un aumento sensibile del consumo di beni esteri e quindi delle importazioni, mandando in deficit la bilancia dei pagamenti e facendo ripartire l'indebitamento privato estero. Solo uscendo dall'euro e recuperando via svalutazione la competitività di prezzo perduta, una crescita di consumi si rivolgerebbe al prodotto nazionale, diventato meno caro di quello estero, con benefici sulla produzione ed i profitti degli industriali e quindi facendo ripartire un circolo virtuoso di sviluppo.

Se le cose stanno così che senso hanno allora le manovre come il Job Act, che agiscono sul costo del lavoro e sulla flessibilità in entrata ed in uscita? Servono a farci diventare una piccola Germania, un Paese tutto export-oriented che vive solo dei consumi del mercato estero, comprimendo quello interno. Guardate qui:


fonte: il sole24ore
le dinamiche fra Italia e Germania in questi ultimi anni si assomigliano inquietantemente. Come ho detto su Twitter e come avevo espresso in forma di chiacchierata qui siamo stati vampirizzati e trasformati a nostra volta in vampiri che vivono dei redditi degli altri. Questa però è una politica che non dura e non può durare, per ovvi motivi già espressi nel mio post sopra ed autorevolmente esaminati, per quanto riguarda la Germania, in questo magnifico articolo di Paul De Grauwe, uno che a Roma definirebbero ironicamente "de passaggio", un attento e lucido osservatore delle dinamiche europee.

Ecco, visti adesso, gli auspici e le dichiarazioni ottimistiche di Letta per il semestre europea diventano chiare, provo a tradurvele in linguaggio comune, così rispondendo alla terza domanda che ci siamo fatti: Volendo a tutti i costi rimanere in Europa abbiamo dovuto distruggere i vostri redditi e creare disoccupazione per stabilizzare il debito estero (quello pubblico è esploso ed i conti pubblici sono tutto tranne in ordine...), ora se voi giovani volete lavorare accettate di avere meno diritti, un reddito di sussistenza e mobilità, così chi esporta vedrà crescere i propri profitti ed assumere. Chi non esporta o chiuderà o verrà comprato per pochi spiccioli da investitori esteri, che noi agevoleremo con il programma "Destinazione Italia".

Non è tutto più chiaro?





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