giovedì 8 gennaio 2015

L'attacco finale


Siamo alla resa dei conti.

Dopo l'attacco indiretto portato dal M5S, sotto le spoglie accattivanti e superficialmente giuste del c.d. reddito di cittadinanza, che non è un vero reddito di cittadinanza e proprio per questo provoca effetti distorsivi e deflattivi, come si può vedere qui, arriva l'attacco diretto e definitivo al lavoro, il vero bersaglio di tutte le politiche liberiste attuate negli ultimi 40 anni in Italia. Per capirlo basta guardare questo grafico:

Fonte: Goofynomics
E' dalla fine degli anni '70 che la quota salari sul prodotto interno ha cominciato a calare progressivamente fino ad arrivare a livelli pre anni '60, con un lieve recupero nei primi anni dell'euro (quando l'economia tirava, drogata dal debito estero) fino allo scoppio della crisi. Ciò significa che da allora il conflitto distributivo è andato a favore del capitale, il quale si è appropriato, con l'incremento della quota dei profitti, dell'aumento della produttività, fino alla fine degli anni '90. Lo si vede bene qui:

Fonte: Goofynomics

la "pancia" fra le due linee rappresenta l'incremento della quota salari rispetto all'incremento della produttività: come si vede la quota salari aumenta più che proporzionalmente della produttività, recuperando così a proprio favore la quota di distribuzione del reddito, fino al 1980, poi comincia a calare in termini reali, ovvero cala più dell'incremento della produttività, perdendo mano a mano quota fino al 1997, quando le curve si incontrano e procedono parallelamente fino allo scoppio della crisi.

Tenete presente che, in un mondo capitalistico perfetto, in presenza di un giusto salario, le due curve dovrebbero precedere accostate parallelamente, come è avvenuto dal 2000 al 2008, ovvero ad un incremento di produttività dovrebbe corrispondere un pari aumento dei salari, cosa che sosterrebbe la domanda globale di beni e permetterebbe di assorbire la produzione e di rendere stabile la crescita (non contando nel consumo per semplicità le esportazioni e le importazioni). Quindi quello che è accaduto è che, con le lotte sindacali negli anni '70 i lavoratori hanno migliorato a proprio favore il conflitto distributivo, orientandolo maggiormente verso i salari ed ottenendo così degli aumenti reali di reddito (cioè maggiori rispetto alla produzione) per circa un decennio, poi gli industriali e gli altri detentori di capitale hanno spostato a loro favore tale conflitto aumentando la quota di reddito destinata al profitto.

E' una particolarità tutta italiana? No, quello che è successo in Italia è il riflesso di quello che è successo in tutte le economie avanzate nello stesso periodo: in tutto il mondo vi è stata una "controffensiva" del capitale sul lavoro:

Fonte: Sinistrainrete     Dati: AMECO Commissione Europea
La linea nera rappresenta il tasso di profitto rispetto al PIL (scala di sinistra) delle tre economie più avanzate, ovvero USA, Europa e Giappone (media ponderata), mentre la linea grigia il tasso ponderato di incremento della produttività delle tre zone (scala di destra). Come si vede a partire dagli anni '80 il tasso di profitto decolla, nonostante la produttività vada calando, aumentando sempre più la propria quota sul PIL. Il conflitto distributivo pende quindi a favore del profitto a scapito del lavoro.

Da notare che, anche dopo la crisi e l'austerità indotta, il tasso di profitto rimane comunque ben più elevato della produttività; ciò significa che vi sono aziende che continuano ad avere un buon tasso di profitto che non è stato intaccato dal calo della domanda globale, ma che si è mantenuto grazie al crollo dei salari ed alla disoccupazione. Ciò significa anche che per alcune aziende la crisi è comunque un'opportunità di guadagno (un esempio lo trovate in questo articolo) e queste aziende e gli uomini che le rappresentano non si dannano certo l'anima per cambiare o far cambiare tale situazione. Questo vi dovrebbe spiegare molte cose...

In questo quadro il Job Act di Renzi trova una sua perfetta collocazione: con il contratto a tutele crescenti si è infatti riuscito a trasformare il contratto a tempo indeterminato, ultimo baluardo delle lotte sociali degli anni '70 - con la sua stabilità e sicurezza garantita dallo Statuto dei Lavoratori - in un tipo particolare di contratto precario, lasciando quindi alla mercé del datore di lavoro la durata e soprattutto la qualità del rapporto lavorativo.

A parte infatti quanto emerge dallo studio della UIL, citato fra gli altri in questo articolo, che spiega il "lato oscuro" del rapporto indennizzi/incentivi, per cui si rischia che sia conveniente per le imprese assumere e poi dopo due/tre anni licenziare il lavoratore, il problema vero del nuovo contratto a tempo indeterminato è dato dal fatto che il dipendente non ha più la stabilità del contratto come base diciamo "negoziale" per i suoi rapporti con il datore di lavoro. Sottostando alla possibilità di essere licenziato senza obbligo di motivazione (non applicandosi l'art. 18, neppure nel testo rimaneggiato e depotenziato che esce dalla riforma), se non una generica e soggettiva non idoneità al lavoro, è evidente che il dipendente per i primi anni sarà totalmente succube del proprio datore, il quale lo utilizzerà come ritiene più opportuno, sia riguardo all'orario, sia riguardo alle modalità di svolgimento dei compiti assegnati e soprattutto riguardo alla paga, che può essere non a caso oggetto di accordi aziendali.

Questa riforma ci porta quindi più vicino agli USA ed all'etica liberista che permea i contratti di lavoro oltreoceano, aggravato dal fatto che il NAFTA (l'accordo di libero scambio Nord Americano), come abbiamo visto, ha tirato giù ulteriormente i salari degli americani, messi in competizione con i lavoratori messicani (ed è quello che ci toccherà con il TTIP), ed è appunto l'attacco finale al concetto di lavoro come diritto di cui all'art. 4 Cost. (e non come favore), e ad una retribuzione che garantisca un'esistenza libera e dignitosa di cui all'art. 36 Cost., che sono la base della nostra società e del nostro assetto economico costituzionale.

A chi giova questa riforma? Agli stessi che abbiamo già visto quando abbiamo parlato di art. 18 dello Statuto: basta rileggersi l'ultima parte di quell'articolo per avere le risposte (un po' di impegno dopo la pigrizia delle feste...)

Buona lettura.


Nessun commento:

Posta un commento